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Il pozzo oscuro. Il lavoro tra filosofia e antropologia

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Platone nel Teeteto narra che Talete “mentre stava mirando le stelle e avea gli occhi in su, cadde in un pozzo; e allora una sua servetta di Tracia, spiritosa e graziosa, lo motteggiò dicendogli che le cose del cielo si dava gran pena di conoscerle, ma quelle che avea davanti e tra i piedi non le vedeva affatto”. È Gadamer a chiarire il senso della narrazione affermando che “…Talete non cadde nel pozzo, ma si calò in un pozzo secco perché questo era l’antico cannocchiale. Infatti grazie all’effetto di oscuramento e di schermaggio, reso possibile dalle pareti del pozzo, si può registrare con grande precisione l’orbita delle stelle che si trovano nella direzione di osservazione e si può inoltre vedere molto di più che non ad occhio nudo – una specie di vero e proprio cannocchiale greco. Quindi non si tratta affatto di un distratto caduto nel pozzo: sarà vero piuttosto – e allora questo evento è un aneddoto di gran lunga migliore per celebrare l’audacia teoretica – che ci si serve di un tale scomodo azzardo – come quello di calarsi in un pozzo – per poi rimettersi all’aiuto di qualcun altro per riuscirne…”.
Anche l’autrice si è calata in un pozzo secco e perciò oscuro, quello della categoria del lavoro, e lo ha utilizzato per proiettare più lontano il suo occhio e ricercare – del lavoro – il senso nella prassi umana e con l’atteggiamento dei filosofi principianti lo ha ripensato nell’epoca del non-lavoro secondo punti di vista altri rispetto alla tradizione, auspicandone una nuova declinazione e una possibile interazione con l’essere persona. L’autrice, in ogni caso – proprio perché la problematica del lavoro è a tutt’oggi aperta a varie declinazioni e il lavoro continua ad essere un enigma misterioso – consegna al lettore solo uno spunto e una traccia per futuri approfondimenti coltivando l’ambiziosa speranza che la passione con cui ha costruito le sue tesi traspaia e sia lievito per ulteriori sviluppi.

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